martedì 7 ottobre 2014

3, il numero perfetto

Le richieste di condanna al maxi processo NOTAV sono esorbitanti, indegne e apparentemente illogiche. Molte sono di tre anni, poco sopra il limite per ottenere la condizionale; per chi é poco addentro ai meccanismi della procura provo a spiegare il perché, attraverso la vicenda accaduta ad un amico.

Dodici anni fa, durante una protesta per il processo sui fatti accaduti al funerale di Baleno, una ragazza viene strattonata da un poliziotto. Un compagno interviene per metterla in salvo. Riesce a sottrarla al poliziotto, ma altri sbirri prendono lui. Due mesi in carcere in attesa del processo. Il capo di imputazione é simpaticamente "tentato furto di arma da fuoco ad agente di pubblica sicurezza". Il compagno é allibito, é chiaramente un falso! Perché? Perché l'eventuale condanna (una cosa attorno ai 4 anni) supera i limiti della condizionale. L'avvocato spiega che l'imputazione é difficile da confermare, ma si rischia grosso, di poliziotti ce n'erano molti, durante il fatto, e se confermano...
Il compagno é giovane, impaurito, si sente solo, e per di più é in carcere. Arriva poco prima del processo la proposta di patteggiamento: resistenza a pubblico ufficiale, 1 anno e 4 mesi, ovviamente con la condizionale. Il compagno firma e va a casa, avrà problemi per anni e la fedina penale sporca, ma é libero. La procura di Torino si evita un processo insostenibile e condanna un violento anarchico.

Per questo oggi dobbiamo essere tutti complici e solidali con i compagni sotto processo, perché non si sentano soli ed abbiano il coraggio (e già molto ne hanno dimostrato) di non farsi ricattare.

Le mogli dei ninja e David Beckham sono un buon paravento.


Piccola riflessione-resoconto a caldo dopo 3 giorni passati ad Istanbul,

con 4 premesse:

1 Non sono esperto né di Turchia né di Islam.
2 Sono stato in loco durante la festività del Sacrificio, una tre giorni in cui nella città si riversano (oltre alle solite tonnellate di turisti) tantissimi turchi da ogni angolo del Paese.
3 Non ero mai stato ad Istanbul e, pur avendo girato molto, la mia prospettiva é giocoforza limitata al cuore della città e a quel che pochi giorni possono permettere di vedere. Resta comunque la megalopoli in cui vive più di un sesto dell'intera popolazione turca.
4 Questo piccolo e parzialissimo scritto ha unica funzione (se ce l'ha)  di stimolare ragionamenti e dibattiti, non ha alcuna pretesa di rivelare angolazioni giuste o verità .

La strada utilizzata per annusare un po' Istanbul é quella che uso sempre, molto empirica e un po' faticosa, ma a mio avviso funzionale: chilometri su chilometri a piedi, dal mattino alla sera tarda (mal contati 40 in tre giorni), girando posti e postacci ed evitando il più possibile i cartonati per turisti.

Appena arrivato in città colpiscono le donne con il velo integrale; ne ho già incontrate, in Egitto, in Tunisia, anche in Italia, ma qui ne vedo a grossi gruppi, girare per strada da sole (fatto alquanto singolare, la tradizione islamica "ortodossa" vuole che le donne escano di casa solo accompagnate da un membro maschio adulto della famiglia), e mi viene stupidamente da pensare: "sembrano mogli di ninja". Mi paiono una nube indistinta, dei cloni l'una dell'altra, e dedico ad altro la mia attenzione.
La prima camminata mi porta da nord di Gezi Park fino alla Moschea Blu: la gentilezza e la disponibilità dei locali si dimostra tantissima, fin quasi eccessiva (un ragazzo con figlioletta in braccio arriva ad allungare il proprio percorso per mostrarmi la via, dopodiché si eclissa con un saluto, quasi ad evitare ringraziamenti); stupisce la relativamente poca povertà visibile, paragonabile a quella di una qualsiasi altra città europea, e l'enorme laboriosità: cantieri, negozi, bancarelle... é impressionante il brulicare produttivo, quasi quanto l'efficenza e la modernità delle infrastrutture.
Arrivato a piazza Taksim - non so che mi aspettassi - trovo, a fatica tra fiumi di persone, solo bancarelle di fiori e kebap e - dopo ormai quasi cinque chilometri di camminata - le prime forze dell'ordine, discretamente nascoste in un vicolo, ma numerose e con armamento antisommossa.
Il meticciato socio-culturale è visibilissimo: ragazzi gay per mano (hanno l'aria temeraria di chi sfida il mondo e ha un po' paura, ma mi pare ricevano solo qualche sparuta occhiataccia), ragazze che paiono lady Gaga, un numero elevatissimo di giovani uomini che i "vecchi hipster" definirebbero metrosexual, e poi il velo, declinato in ogni sfumatura, da quello che sembra un capriccio estetico fino al burka. E quando l'occhio si abitua anche tra i veli integrali si indovinano differenze: pur essendo tutti neri e di taglio simile, gli abiti sono di tessuti differenti, alcuni con orli dorati altri senza frange e lisi, gli occhi che ne spuntano in certi casi sono truccatissimi, in altri dimostrano un pallore estremo; le scarpe che fan capolino da sotto sono a volte tacchi ricercati, a volte pantofole male in arnese; così come gli accessori, buste di plastica e stringhe per cintura o borse firmate, rayban e smartphone.
Mi imbatto in una "moglie di ninja" che si fa un autoscatto, poi, spiando un'altra chattare, vedo che la ragazza con cui sta conversando ha come avatar una propria foto col volto totalmente coperto dal velo.... Tutti dati normali, valutandoli con l'occhio del sociologo culturale, ma forse sono anche indice di altro, di uno strano modo di far interagire due visioni del mondo. Quando entro in un piccolo ristorantino (l'equivalente di una nostra osteria) al tavolo di fianco trovo seduta una famiglia locale, marito, moglie e figli vestiti all'occidentale e suocera (?) col velo integrale: per mangiare l'anziana donna scosta il velo ad ogni boccone e l'uomo (genero o figlio che sia) la contempla con l'aria rassegnata e lancia uno sguardo complice alla moglie, probabilmente stan pensando "ah, 'sti anziani, con le loro stupide tradizioni!". La sciocca idea di una preponderanza di laicismo fra la gioventù si frantuma poco dopo, quando scorgo un coppia di ventenni, lui un incrocio tra Tony Manera e Justin Timberlake, lei in burka: la ragazza fatica ad incedere poiché non può alzare lo sguardo da terra e deve però evitare, avanzando tra la folla, di toccare chicchessia (deduzioni mie), lui - mentre chiacchiera parlando con un amico - la controlla ad ogni passo con sguardo vigile e severo. Più tardi in albergo una giovane donna, incrociandomi, metterá letteralmente la faccia contro al muro e camminerà così per sette/otto metri, fino alla propria stanza.

Da una vettura aperta di un tram in movimento un gruppo folk rock intrattiene i passanti, poi si ferma per la Salāt al-maghrib che giunge dal vicino minareto ma che resta ignorata dalla strada, anche dai passanti dall'aspetto più tradizionale. É questo il dato strano e per me straniante: i filo occidentali frequentano i Mc Donald e gli Starbucks  dove però cucinano (evidentemente perché se no non vendono) kebap e dolci di miele e nocciole; gli "ortodossi" pretendono rigore tradizionale, hanno barbe lunghe e impongono velo e altre regole misogine della tradizione ma non si fermano per la salāt, che é precetto coranico. La dicotomia culturale che di primo acchito tanto affascina sembra essere un'altra cosa, sembra voler essere una bandiera, uno schieramento formale (o quasi) pro o contro Europa, pro o contro nazione islamica.
Ovviamente é un ragionamento riduttivo, ma pare che la donna velata sia lì, anche in posti squisitamente turistici, a camminare avanti e indietro senza parlare, senza guardare una vetrina, proprio perché chi ce l'ha messa vuole io creda lei sia davvero la moglie del ninja, che accanto a lei - trattata da mero oggetto ma con sema di forte valore mediatico - ci sia un baluardo dell'islam. E i "modernisti" con improbabili pantaloni di pelle, meshes rosso bionde e magliette fluorescenti non é che siano realmente privi di gusto estetico, stanno semplicemente dicendo che vogliono occidente, tifano Beckham. Questa contrapposizione formale si cristallizza inspiegabilmente in un'ossequiosa quiete apparente, una bonaria tolleranza di facciata che é presumibilmente voluta dalle istituzioni: prosperità e convivenza, garantite dalla spinta ai consumi da una parte, da una base elettorale conservatrice ben radicata dall'altra, atte a neutralizzare altre problematiche.
La situazione é comunque palesemente instabile: il tifo, "pieno" o "vuoto" di convincimento che sia, tende spesso ad estremizzarsi, ed il passato della Turchia lo ha dimostrato abbondantemente, ma ciò passa in secondo piano, purché non si veda il terzo attore.
Procedendo per il quartiere di Galata su alcuni muri vedo manifesti di fresca stampa, non siglati, ma chiaramente di ambiente PKK (o DTP), che inneggiano alla resistenza all'"imperialismo dell'Isis": l'unico dato politico diretto della mia visita. Il mattino dopo saranno scomparsi. Più avanti mi siedo per un caffé: in mezzo a suonatori moltocaratteristicilocalioriginali e carretti colmi di qualsiasi cosa che si sfidano per attirare i passanti, un piccolo gruppo di ragazzi che stona con il resto della via per modi e umori canta, pare in spregio a qualcosa o qualcuno, un motivo, accompagnandosi con battiti di mani e accenni di balletto. La strada si ferma un attimo per guardarli male, con disprezzo. "Drunk kurds" mi dicono.

Venendo alla crisi attuale e provando a giocare ad Indovina chi?, nella narrazione che Istanbul fa di sé si incontra gente che saresti pronto a scommettere tifi isis, altra che palesemente parteggia usa/ue, quasi nessuno che sostenga i peshmerga (ne ho forse visti alcuni, di questi, la sera, seduti davanti a serrande abbassate o nei poveri quartieri che si affacciano sul Bosforo, più probabilmente i drunk kurds di cui sopra), nessuno che possa dare l'idea di sostenere il PKK. Ma questa rappresentazione cozza coi dati: se almeno il 18% della popolazione é curda (cfr. CIA - The Factbook, 2011, ma secondo diversi siti curdi si arriva quasi al 28%) e se il DTP prima di essere sciolto aveva diversi seggi in parlamento, dovrebbe esserci qualche eco politica della loro presenza; e non sono in parte  turche le donne curde che vediamo combattere l'isis col PKK?; così come l'evidenza di piazza taksim non può essere stata un fuoco già spento del tutto, e di certo non era (almeno non solo) voglia di Beckham.

Non sembra che Erdogan fin ora sia stato spaventato dalla lotta interiore Occidente-Islam, anzi, pare la gestisca a proprio favore: il problema cogente sono (come da sempre) le spinte libertarie e il popolo curdo; quindi questa parte di Turchia non si deve vedere in strada: a piazza Taksim fiori e bandiere, i manifesti subito stracciati dai muri...

E il meccanismo funziona: la censura (ad ora parziale) di internet alla reception dell'albergo me la motivano con la necessità di tutelare il buon costume e non far vedere donne in atteggiamenti lascivi, ma per strada i manifesti quattro per tre sono come i nostri, e nessuno si scandalizza, così come per le vetrine di lingerie sexy o per i "centri massaggi" (e non mi riferisco ai trattamenti degli hammam).
Ora però la dicotomia fondante la società turca sembra non potrà più fungere da paravento, Erdogan dovrà scegliere, e le prime scelte sembran dire che teme sí la comunità internazionale, ma ha più paura dei curdi e del PKK..